sabato 9 marzo 2013

Stato-Mafia: l'atto d'accusa di Nino Di Matteo


Trattativa Stato-mafia 


La requisitoria del pm Nino Di Matteo 






Prologo

“Le imputazioni che muoviamo agli imputati incrociano e riguardano l’intera storia del rapporto tra lo Stato e la mafia negli anni ‘80 e negli anni ’90. Una storia nella quale, al di là dell’apparenza e della retorica (facile retorica antimafiosa), lo Stato compatto combatte senza tregua i criminali con le sole armi della buona Politica e del Diritto. La verità che emerge è un’altra. E’ una verità che rappresenta come una parte delle istituzioni, anche in nome di una ritenuta ma inconfessabile, e pertanto mai dichiarata, ragion di Stato, ha cercato ed ottenuto (in particolare nel periodo che ci interessa e che abbiamo rappresentato nella richiesta di rinvio a giudizio) il dialogo con l’organizzazione mafiosa, con segmenti importanti di essa, ritenendo una tale condotta, a nostro parere sciagurata, utile ad arginare le manifestazioni più violente, e come tali destabilizzanti l’ordine pubblico nel nostro Paese. D’altra parte, Giudice, chiunque si accosti con uno sforzo di intelligenza anche storica allo studio del fenomeno mafioso, in particolare in Sicilia, sa che Cosa Nostra ha tendenzialmente coltivato l’ambizione della convivenza con le istituzioni, in funzione del consolidamento di un vero e proprio potere effettivo, parallelo a quello legittimo, ricorrendo alla contrapposizione violenta solo in determinati momenti. E’ avvenuto così nel periodo che ci interessa, quando Cosa Nostra si è mossa per rinegoziare l’equilibrio dei suoi rapporti con la Politica, da poco entrato in crisi; ricorso alla violenza che quindi Cosa Nostra ha attuato solo in determinati momenti, o per scopi e finalità contingenti, o per eliminare gli ostacoli, e noi crediamo che il Giudice Borsellino possa essere stato eliminato anche per questo motivo, che via via si frapponevano, anche solo potenzialmente, alla realizzazione dell’obiettivo ultimo di Cosa Nostra, per eliminare quegli ostacoli, quegli uomini dello Stato che si sono ostinati a pensare che con i mafiosi non si tratta, non si media, non si dialoga in nessun momento e per nessuna ragione. Questa è la cornice nella quale vanno letti, esaminati, compresi i fatti di questo processo. Fin da questa fase dell’udienza preliminare, il Giudice lo dovrà fare, certamente lo farà, senza pericolosi e perfino istintivamente comprensibili pregiudizi nei confronti di accuse così gravi, mosse anche a uomini di Stato di così importante rilievo. Il Giudice fin da questa fase lo dovrà fare collegando sistematicamente, e non atomizzando, i singoli elementi di prova; il Giudice lo dovrà fare, e siamo certi che lo farà con intelligenza, senza timori, con il coraggio di chi vuole affermare che di fronte alla violazione della legge anche uomini così potenti, a prescindere dalla concorrenza e dalle specifiche motivazioni ulteriori che ne hanno potuto muovere i comportamenti, non possono sottrarsi alla conseguenza delle loro condotte, perché nessuna vera o presunta ragion di Stato, o più semplicemente di opportunità politica, può giustificare la loro impunità”.


Il ruolo degli uomini di Stato
“Quelle condotte (degli uomini di Stato, ndr) hanno finito per orientare, nel concreto, quella volontà di Cosa Nostra di attacco frontale allo Stato che si era già formata e perfezionata. Orientare nel concreto nella scelta degli obiettivi e nelle modalità di realizzazione del piano criminale già concepito, obiettivi e modalità di realizzazione diversi da quelli già predeterminati dal vertice di Cosa Nostra. In sostanza, non più i politici “traditori”, così come originariamente concepito dal vertice di Cosa Nostra, ma gli ostacoli alla strategia e poi, in funzione via via sempre più marcatamente terroristica, obiettivi, quelli degli attentati di Roma, Firenze e Milano, in grado di alimentare ulteriormente, con l’allarme sociale che ne conseguiva inevitabilmente, la minaccia di Cosa Nostra”.


Via il 41 bis
“Soltanto perché sono state dette e lette tante sciocchezze, anche in autorevoli articoli giornalistici, dicendo che si trattava di personaggi di calibro infimo, io mi permetto di ricordare alcuni nomi che beneficiarono di quella decisione (la mancata proroga del 41 bis, ndr) passando ad un regime
ordinario di detenzione. Cominciamo dai mafiosi di origine palermitana o della provincia palermitana: Francesco Spadaro; Diego Di Trapani, legato da rapporti che sappiamo essere quali sono, anche di parentela, con la famiglia Madonia di Resuttana; Giuseppe Giuliano, della famiglia mafiosa di Brancaccio; Vito Vitale, a parte il ruolo nel mandamento di Partinico, amico di sangue di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella; Giuseppe Farinella, capo-mandamento di San Mauro Castelverde; Antonino Geraci, già capo-mandamento di Partinico, anzi a quell'epoca ancora capo-mandamento di Partinico; Raffaele Spina, non solo uomo d'onore della famiglia della Noce, ma cognato e legato da rapporti di affinità sia con Raffaele Ganci che con Giacomo Giuseppe Gambino; Giuseppe Fidanzati, fratello di Gaetano Fidanzati, storico trade d’union tra le famiglie palermitane e i gruppi mafiosi criminali operanti a Milano e in Lombardia; Andrea Di Carlo, uomo d’onore della famiglia di Altofonte, quella stessa famiglia di Altofonte a cui apparteneva Gioé, a cui apparteneva Santino Di Matteo,  Gioacchino La Barbera, quelli che avevano fatto la strage di Capaci assieme ad altri, e fratello di Francesco Di Carlo, poi divenuto collaboratore di giustizia; Leonardo Grippi; Giovanni Prestifilippo; Giuseppe Rancadore, poi capo della famiglia di Trabia; Giuseppe Gaeta, famiglia mafiosa di Termini Imerese, poi sarà rappresentante della famiglia mafiosa di Termini Imerese. 




Ma poi come non considerare il calibro di tanti altri soggetti di mafia, importantissimi, delle famiglie mafiose siciliane? Emanuele Iozza, Gela; Giovanni Passaro, Caltanissetta; Luigi Celona, clan Madonia, Gela; ancora, tra i palermitani dimenticavo Salvatore Adelfio della Guadagna; Salvatore Asaro, Mazara del Vallo; Luigi Bordonaro e Salvatore Riggio, capi-mafia di Riesi, in provincia di Caltanissetta; Giuseppe e Gioacchino Calafato di Palma di Montechiaro; Cesare Bontempo Scavo di Tortorici; Carmelo Tasca e Carmelo Dominante, i killer del clan Madonia di Gela; ancora, Giuseppe Grassonelli di Porto Empedocle; moltissimi catanesi, poi vedremo il ruolo dei catanesi e di Santapaola; Luigi Miano, detto Jimmy Miano, il collaboratore più stretto di Nitto Santapaola in tutte le vicende degli interessi mafiosi, non solo nell'autoparco a Milano, ma nei casinò di Saint Vincent, di Sanremo, interessi mafiosi della mafia catanese nel nord Italia; Salvatore e Francesco Ferrera di Catania; ancora, Salvatore Lenza; e qualcun altro. Non mi sembra che siano nomi insignificanti. Certo, non potevano togliere il 41 bis a Totò Riina, che era entrato da poco nelle patrie galere, o a colori i quali, ancora Bagarella era latitante, Brusca era latitante, Provenzano era, e rimarrà a lungo, latitante, comunque questi sono i nomi. Io credo che possiamo dire che in quel modo è stato clamorosamente esplicitato proprio quel segnale di distensione e dialogo di cui già troviamo cenno nel documento del 26 giugno”.

Il dialogo
“Giudice, noi non riteniamo che quella mancata proroga è stata l’oggetto esclusivo della trattativa; non è che rappresenti l'esecuzione di un patto che aveva ad oggetto soltanto la mancata proroga del 41 bis, ma riteniamo che questa vicenda costituisca una tappa significativa di apertura al dialogo, di una dimostrazione effettiva di apertura al dialogo in funzione della ricerca di un punto di equilibrio che potesse indurre Cosa Nostra, e le altre organizzazioni criminali, (perché ci sono tantissimi esponenti della 'Ndrangheta, della Camorra e della Sacra Corona Unita di elevatissimo spessore criminale tra i beneficiari di quella condotta), a cessare la sua strategia di violento attacco allo Stato; che poi lo riteniamo noi, ma è la cosa che sostanzialmente ha detto in quel pomeriggio in cui venne udito dalla Commissione Antimafia lo stesso Ministro Conso. E il significato profondo di tale apertura al dialogo si coglie ancora di più ove si pensi all'assoluta centralità nelle strategie complessive, nei pensieri del vertice di Cosa Nostra che in quel momento, e non solo in quel momento, aveva e continuerà ad avere il 41 bis; lo troviamo nel papello il problema del 41 bis, lo troviamo nella lettera dei parenti dei familiari dei detenuti di Pianosa e l'Asinara diretta al Presidente della Repubblica il 17 febbraio del ’93, lo continuiamo a trovare sempre, sino al 2002, quando, guarda caso subito dopo la stabilizzazione del regime del 41 bis non più come norma provvisoria, ma come norma prevista dall'ordinamento penitenziario, definitivamente prevista dall'ordinamento penitenziario”.


Mori, il ROS e Cosa Nostra
“Noi non crediamo e non sosteniamo che il Generale Mori, i Carabinieri del ROS abbiano favorito Provenzano e Santapaola e Cosa Nostra, la fazione di Cosa Nostra, perché ne condividevano il programma criminoso, perché collusi con Cosa Nostra, perché corrotti da chissà chi o costretti dalla paura. No, non è questa l'essenza della nostra accusa. 
Quei Carabinieri, che oggi sono imputati qui in questo processo, sono stati degli ufficiali, in particolare il Generale Mori, che ad un certo punto della loro carriera, obbedendo ad indirizzi politici da altri predeterminati (e per questa obbedienza hanno riscosso successivamente importanti benefici in termini di carriera, tanto che poi il Generale Mori ha assunto l'incarico di direttore del Servizio Segreto Civile) per contrastare la deriva stragista imposta da Salvatore Riina e dai suoi alleati di più stretto riferimento, ha ritenuto di trovare un rimedio (visto che di trovare un rimedio erano stati incaricati dai politici), nella prevalenza in seno alla compagine mafiosa dell'ala più moderata. Dell'ala che poi si è profilata più moderata e tradizionalmente refrattaria alla contrapposizione frontale con lo Stato, la fazione proprio riconducibile a Bernardo Provenzano, a Nitto Santapaola, però in particolare a Bernardo Provenzano, ma prima condizione indispensabile per potere addivenire a questa soluzione auspicata, e che costituisce, diciamo, la base della trattativa, era quella di garantire il perdurare dello stato di latitanza di Bernardo Provenzano, e pertanto si è prodigata, diciamo, quella parte del ROS, in un periodo nel quale, invece, uno dietro l'altro, Riina - 15 gennaio ’93, Graviano – gennaio ’94, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, cadevano nella rete dello Stato i più pericolosi capimafia latitanti di orientamento criminale diverso. Mori, in quel determinato momento storico, ha coperto la latitanza di Provenzano per consolidarne quel potere all'interno dell'organizzazione, che, in ossequio agli accordi scaturiti proprio dal periodo stragista e dalla parallela trattativa, avrebbero definitivamente portato all'abbandono della linea di scontro violento ed incondizionato e all'adozione di quel basso profilo, di quella sommersione, di quella apparente normalizzazione nel rapporto mafia - istituzioni, che ha effettivamente poi caratterizzato tutto il periodo della egemonia provenzaniana, fino alla cattura ad opera della Polizia di Stato dello stesso Bernardo Provenzano a Montagna dei Cavalli, in quel di Corleone, l'11 aprile del 2006”.



Nessun commento: